Gli
angeli della corsia
A
più di un anno dall’inizio della pandemia da Covid-19, Paola Di Giulio per il
Cif Nazionale ha intervistato la dott.ssa Rita Murri del Dipartimento di
Sicurezza e Bioetica – Sezione di Malattie Infettive – Università Cattolica del
Sacro Cuore – Roma.
Come ha reagito il
personale a diretto contatto con questa inaspettata pandemia?
L’esperienza
del Covid – 19 ha lasciato, in tutti coloro che accompagnano le persone
colpite, un dolore inconsolabile, ha significato a volte impotenza … Alcuni
sono stati toccati nel profondo, preoccupati anche dal pensiero di trasferire
nelle proprie case la malattia pericolosa, altri apparentemente spavaldi,
piangono di nascosto, altri cercano di farsi coraggio relazionandosi con i
colleghi nelle pause del caffè. Alcuni sono diventati dei veri e propri numeri
verdi viventi, altri sentono il rimpianto di una vita piena… E altri ancora ,
genitori di bambini piccoli, avvertono la difficoltà di ritornare ad una vita
normale… Altri così tenacemente attaccati alla vita e ai princìpi che la
guidano che neanche una pandemia potrà
spazzarli via.
Il personale
giovane sta imparando velocemente e, in questo contesto di emergenza, siamo
tutti preoccupati per loro. I giovani non hanno consapevolezza per quello che
sta avvenendo, di ciò che stanno vivendo. Alcuni soffocano letteralmente dentro
le tute di plastica, altri si sentono protetti. Molti non ce la fanno più ad avere
gli occhiali o gli schermi appannati che impediscono la comunicazione con i
pazienti. Di certo tutti abbiamo imparato a trasmettere un sorriso anche con la
mascherina, a comunicare un messaggio di speranza. Qualcuno soffre
quotidianamente di non poter fare il proprio lavoro al meglio, altri potenziano
le loro capacità innate all’adattamento …
Quale il vostro rapporto
con il paziente?
Talvolta
dobbiamo consolare , rassicurare i pazienti mettendoli al riparo da una paura
che travolge anche noi. L’incerto e il non conosciuto ci fanno essere meno
forti , meno solidi nel rasserenare e dare speranza. Questo è molto duro. La
cosa che più ci addolora è vedere i pazienti morire completamente da soli. Una
lacerazione che non si supera, questa è la parte più crudele della pandemia.
Credo sia inaccettabile per ognuno di noi pensare ad un proprio caro o a se
stessi concludere la propria vita da solo.
Per
questo, per l’isolamento, per l’incertezza sulla sicurezza e per i turni
massacranti, spesso noi operatori siamo sfiniti. Soprattutto all’inizio della
pandemia ci chiamavano eroi e santi, ma c’è qualcosa che non quadra in questo:
essere chiamati eroi e santi ci impedisce di dire ad alta voce che siamo
stanchi e che qualche volta pensiamo “ma chi ce l’ha fatto fare”. Nessuno si
tira indietro, ma siamo esausti. Stiamo imparando che è normale essere fragili
e distrutti, anche noi che abbiamo scelto una professione d’aiuto abbiamo
bisogno di energie per risollevarci ed essere di supporto per i malati.
Il personale medico si è
trovato a dover attuare anche la comunicazione con i parenti …
La
grande risorsa è costituita dall’essersi trovati in una pandemia in piena era
digitale. I cellulari, i tablet e le telecamere hanno sicuramente ammorbidito
la solitudine. Hanno dimezzato la noia e il senso di isolamento. La
videochiamata con il familiare è un’esperienza incredibile quando noi operatori
aiutiamo il paziente a farla. Ci troviamo coinvolti ad entrare nell’intimità di
famiglie, e ad assistere ai dialoghi intensi e brevi di un saluto via etere.
Vediamo intere famiglie riunirsi ad ore impensabili per salutare un nonno o una
nonna, vediamo figli incitare genitori inappetenti, vediamo lacrime e lacrime e
anche noi ci commuoviamo anche se dentro la tuta e gli schermi non si vede.
Testimoni unici …
Abbiamo
assistito alle più romantiche e mai sentite dichiarazioni d’amore di
ultraottantenni, ascoltiamo dissapori, vecchie ruggini, durezze e rancori,
sentiamo gridare “Dai che ti aspettiamo a casa” … anche sapendo che ciò non
avverrà. Assistiamo a veri e propri testamenti spirituali, spesso con
l’affanno, vediamo tanti anziani fare uno sforzo immane per far finta di stare
meglio, vediamo tanto amore scorrere in forme davvero varie. Qualcuno ci chiede
una foto del proprio familiare anche se sa che versa in condizioni disperate.
Le famiglie vengono contattate anche da noi medici a prescindere dalla
videochiamata: la telefonata alla famiglia spesso è l’unico filo che tiene
legati i pazienti ai loro familiari. Talvolta le famiglie ricevono chiamate
dopo giorni e giorni in cui il proprio parente è passato da Pronto Soccorso a
Pronto Soccorso e finalmente giunge in Reparto in un ospedale. Troviamo
famiglie grate e famiglie furiose che
riversano su di noi la rabbia di tanti giorni brutti. A volte dobbiamo
accompagnare gradualmente la famiglia alla consapevolezza di un inevitabile
peggioramento. Con il trasferimento in Terapia Intensiva spesso il rapporto
costruito cessa bruscamente e ne inizia
un altro con i colleghi in rianimazione. Qualcuno ci viene a trovare nonostante
le barriere perché vuole vedere la faccia che abbiamo. Percepiamo forte la
stanchezza e lo stress di eventi così importanti e ci troviamo a dare sostegno
solo con la voce, là dove appena un anno fa avremmo stretto la mano o
abbracciato quel familiare.
intervista
completa su Cronache & Opinioni numero 5
- 2021
Nessun commento:
Posta un commento