mercoledì 19 maggio 2021

 

Gli angeli  della  corsia


A più di un anno dall’inizio della pandemia da Covid-19, Paola Di Giulio per il Cif Nazionale ha intervistato la dott.ssa Rita Murri del Dipartimento di Sicurezza e Bioetica – Sezione di Malattie Infettive – Università Cattolica del Sacro Cuore – Roma.

Come ha reagito il personale a diretto contatto con questa inaspettata pandemia?

L’esperienza del Covid – 19 ha lasciato, in tutti coloro che accompagnano le persone colpite, un dolore inconsolabile, ha significato a volte impotenza … Alcuni sono stati toccati nel profondo, preoccupati anche dal pensiero di trasferire nelle proprie case la malattia pericolosa, altri apparentemente spavaldi, piangono di nascosto, altri cercano di farsi coraggio relazionandosi con i colleghi nelle pause del caffè. Alcuni sono diventati dei veri e propri numeri verdi viventi, altri sentono il rimpianto di una vita piena… E altri ancora , genitori di bambini piccoli, avvertono la difficoltà di ritornare ad una vita normale… Altri così tenacemente attaccati alla vita e ai princìpi che la guidano  che neanche una pandemia potrà spazzarli via.

Il personale giovane sta imparando velocemente e, in questo contesto di emergenza, siamo tutti preoccupati per loro. I giovani non hanno consapevolezza per quello che sta avvenendo, di ciò che stanno vivendo. Alcuni soffocano letteralmente dentro le tute di plastica, altri si sentono protetti. Molti non ce la fanno più ad avere gli occhiali o gli schermi appannati che impediscono la comunicazione con i pazienti. Di certo tutti abbiamo imparato a trasmettere un sorriso anche con la mascherina, a comunicare un messaggio di speranza. Qualcuno soffre quotidianamente di non poter fare il proprio lavoro al meglio, altri potenziano le loro capacità innate all’adattamento …

Quale il vostro rapporto con il paziente?

Talvolta dobbiamo consolare , rassicurare i pazienti mettendoli al riparo da una paura che travolge anche noi. L’incerto e il non conosciuto ci fanno essere meno forti , meno solidi nel rasserenare e dare speranza. Questo è molto duro. La cosa che più ci addolora è vedere i pazienti morire completamente da soli. Una lacerazione che non si supera, questa è la parte più crudele della pandemia. Credo sia inaccettabile per ognuno di noi pensare ad un proprio caro o a se stessi concludere la propria vita da solo.

 

 

 

 

Per questo, per l’isolamento, per l’incertezza sulla sicurezza e per i turni massacranti, spesso noi operatori siamo sfiniti. Soprattutto all’inizio della pandemia ci chiamavano eroi e santi, ma c’è qualcosa che non quadra in questo: essere chiamati eroi e santi ci impedisce di dire ad alta voce che siamo stanchi e che qualche volta pensiamo “ma chi ce l’ha fatto fare”. Nessuno si tira indietro, ma siamo esausti. Stiamo imparando che è normale essere fragili e distrutti, anche noi che abbiamo scelto una professione d’aiuto abbiamo bisogno di energie per risollevarci ed essere di supporto per i malati.

Il personale medico si è trovato a dover attuare anche la comunicazione con i parenti …

La grande risorsa è costituita dall’essersi trovati in una pandemia in piena era digitale. I cellulari, i tablet e le telecamere hanno sicuramente ammorbidito la solitudine. Hanno dimezzato la noia e il senso di isolamento. La videochiamata con il familiare è un’esperienza incredibile quando noi operatori aiutiamo il paziente a farla. Ci troviamo coinvolti ad entrare nell’intimità di famiglie, e ad assistere ai dialoghi intensi e brevi di un saluto via etere. Vediamo intere famiglie riunirsi ad ore impensabili per salutare un nonno o una nonna, vediamo figli incitare genitori inappetenti, vediamo lacrime e lacrime e anche noi ci commuoviamo anche se dentro la tuta e gli schermi non si vede.

Testimoni unici …

Abbiamo assistito alle più romantiche e mai sentite dichiarazioni d’amore di ultraottantenni, ascoltiamo dissapori, vecchie ruggini, durezze e rancori, sentiamo gridare “Dai che ti aspettiamo a casa” … anche sapendo che ciò non avverrà. Assistiamo a veri e propri testamenti spirituali, spesso con l’affanno, vediamo tanti anziani fare uno sforzo immane per far finta di stare meglio, vediamo tanto amore scorrere in forme davvero varie. Qualcuno ci chiede una foto del proprio familiare anche se sa che versa in condizioni disperate. Le famiglie vengono contattate anche da noi medici a prescindere dalla videochiamata: la telefonata alla famiglia spesso è l’unico filo che tiene legati i pazienti ai loro familiari. Talvolta le famiglie ricevono chiamate dopo giorni e giorni in cui il proprio parente è passato da Pronto Soccorso a Pronto Soccorso e finalmente giunge in Reparto in un ospedale. Troviamo famiglie grate  e famiglie furiose che riversano su di noi la rabbia di tanti giorni brutti. A volte dobbiamo accompagnare gradualmente la famiglia alla consapevolezza di un inevitabile peggioramento. Con il trasferimento in Terapia Intensiva spesso il rapporto costruito cessa bruscamente  e ne inizia un altro con i colleghi in rianimazione. Qualcuno ci viene a trovare nonostante le barriere perché vuole vedere la faccia che abbiamo. Percepiamo forte la stanchezza e lo stress di eventi così importanti e ci troviamo a dare sostegno solo con la voce, là dove appena un anno fa avremmo stretto la mano o abbracciato quel familiare.

intervista completa su Cronache & Opinioni numero 5  - 2021

 

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