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SCUOLA NELL’ERA COVID
La scuola è un microcosmo nel quale ogni giorno si svolgono rituali
consolidati, si vivono emozioni, crescono relazioni, si apprende, si insegna,
si educa, si sbaglia, si conosce, ci si incontra, si litiga, si ride, ci si
arrabbia, ci si innamora, ci si fida e ci si sfida. Un piccolo mondo dove
bambini e ragazzi si preparano alla vita, accompagnati da adulti che hanno
scelto questa professione.
A fine febbraio dello scorso anno , la pandemia ha interrotto bruscamente
la scuola in presenza. Un’emergenza improvvisa ed inaspettata che nessuno era
stato preparato ad affrontare e gestire.
Insegno in una scuola secondaria di primo grado del legnanese e il nostro
motto, da subito, è stato “La scuola non si ferma”. Tuttavia, sarebbe ingenuo e
falso affermare che questa indicazione sia stata accolta in ogni istituto, da
ogni docente e da ogni alunno con lo stesso spirito, lo stesso coraggio e la
stessa determinazione.
Gli insegnanti non erano preparati. La gestione della didattica a
distanza è stata affidata, durante il primo durissimo lockdown, alla
responsabilità ma anche alle capacità digitali dei singoli docenti. La
formazione in itinere ha permesso di attivare percorsi didattici che si sono
rivelati sicuramente differenti tra loro sia per qualità sia per quantità. Ho
visto in moltissimi colleghi uno sforzo enorme per non lasciare gli alunni da
soli, fin dall’inizio. Molti di noi non avevano mai utilizzato Zoom o Google
Meet prima, non utilizzavano abitualmente piattaforme come Classroom, Edmodo,
Weschool. In alcune scuole non era ancora a pieno regime l’utilizzo del
Registro Elettronico.
La DAD è stata difforme, faticosa e soprattutto frustrante perché non ci
ha permesso di raggiungere tutti gli alunni. Moltissimi bambini e ragazzi non
avevano dispositivi adatti o sufficienti. Se in una casa ci sono tre bambini in
età scolare e il computer è uno solo, l’uso ne è naturalmente compromesso.
Molte famiglie non disponevano (e qualcuno ancora oggi non dispone) di una
buona connessione né di una minima formazione digitale tale da supportare a
livello tecnologico i propri figli. Con diverse famiglie straniere che avevano
già difficoltà linguistiche è stato ancora più complesso interfacciarsi. Molti
istituti hanno fornito tablet o altri dispositivi in comodato d’uso a chi ne
aveva bisogno ma, ad esempio, laddove i giga a disposizione del nucleo
familiare erano pochi, le video lezioni li consumavano in poche ore.
Al di là di questi aspetti pragmatici, che hanno segnato in modo
significativo la DAD, emerge come dato ancora più rilevante il vuoto lasciato
dalla mancanza della “vita scolastica,” così ricca di dinamiche, relazioni ed
emozioni. La vita che corre tra i banchi, nelle classi e nei corridoi di una
scuola è insostituibile e concorre in modo pregnante alla formazione e alla
crescita di ogni bambino e ragazzo.
Davanti ad una situazione sanitaria drammatica, soprattutto per la
perdita di molte vite umane, si è dovuto sacrificare questo elemento così
imprescindibile nella vita dei nostri figli ed alunni.
La DAD era l’unica alternativa possibile e, per questo motivo, nonostante
tutti i suoi indiscutibili limiti, le sono grata perché mi ha permesso di
mantener un contatto con la quasi totalità dei miei alunni fin dai primi giorni.
Se l’emergenza Covid si fosse verificata 25 anni fa non ci sarebbe stata
nessuna alternativa alla scuola in presenza.
Dopo un anno, la DAD non è più una sorpresa purtroppo. É
diventata, nella sua forma pura e nella DDI diffusa nelle scuole superiori, una
realtà normata che, a singhiozzo, ha accompagnato anche il presente anno
scolastico 2020/2021. Oggi, la formazione dei docenti, l’uso delle aule
virtuali, il superamento delle difficoltà tecnologiche di alcuni studenti hanno
portato ad una didattica a distanza più efficace ed inclusiva di quella messa
in campo nei primi mesi. Questo però non è ancora soddisfacente.
A novembre, il giorno prima che venisse nuovamente sospesa la didattica
in presenza, ho discusso della situazione con una mia classe terza (media): una
classe con ragazzi straordinari, pieni di voglia di vivere e di crescere
insieme. Caratteristiche che accomunano tutte le mie classi, del resto. Tutti gli
alunni concordavano che il sacrificio che veniva chiesto loro era davvero
grande e che solo il proteggere la vita dei nonni o dei genitori poteva valere
un sacrificio tale.
Quello che si vive davanti ad uno schermo è un palliativo, una brutta
copia che sta lentamente logorando la motivazione anche degli alunni più
brillanti. La socialità di bambini e ragazzi è fortemente penalizzata e la
tendenza alla dispersione scolastica è in crescita. Gli alunni più fragili
hanno avuto le difficoltà maggiori e la possibilità di frequentare in presenza
per gli alunni con bisogni educativi specifici (anche durante la chiusura) è
stato uno strumento importante. Non si può d’altro canto dimenticare che il
diritto all’istruzione deve essere garantito a tutti e nel miglior modo
possibile.
Per noi insegnanti parlare davanti ad uno schermo dove spesso, nonostante
le regole, qualcuno oltre a spegnere il microfono spegne la webcam, non è solo
frustrante: non ti permette di tenere il polso della situazione, di cogliere
quanto un alunno stia seguendo e capendo. Nella relazione tra docente e
discente spesso basta uno sguardo per comprendere, richiamare o incoraggiare. Quello
sguardo in DAD ci è stato tolto.
Personalmente, nonostante la fatica e lo scoramento per un modo di
lavorare che spegne ciò che di più bello è presente in quello che per me è il
lavoro più bello del mondo, rispetto e condivido la scelta di chiudere le
scuole quando la pressione sugli ospedali si fa pesante e i numeri dei contagi
lievitano inesorabilmente.
Non amo lavorare in questo modo, ma ne abbiamo fatto di necessità virtù. Nella
maggior parte dei casi, le aule sono piccole e spesso non ben areate, le classi
numerose. Le regole di prevenzione sono stringenti ma si sa che come ci sono le
regole, ci sono sempre coloro che provano a non rispettarle. L’età dei miei
alunni, la preadolescenza, è un periodo delicatissimo,in cui per alcuni più che
per altri la sfida alle regole è parte dell’affermazione di sé. È sufficiente
avere in una classe uno o due studenti che, nonostante i ripetuti richiami,
faticano ad indossare correttamente la mascherina per mettere in pericolo la
salute di tutti.
Le vaccinazioni degli insegnanti sono iniziate e sono state poi
bruscamente interrotte. Mi ritengo privilegiata ad aver ricevuto la prima dose
di vaccino. La variante inglese, ormai egemonica in Italia, colpisce più
facilmente le fasce più giovani e c’è chi ha paura. Credo sia legittimo avere
paura così come sia legittimo richiedere l’apertura delle scuole. C’è stato
molto tempo per proporre soluzioni che possano limitare il contagio in un
ambiente chiuso e di fatto affollato. Speravo in qualche forma di tracciamento
(come ad esempio i tamponi rapidi) che, evidentemente, non è ancora
realizzabile a livello capillare e abbiamo riaperto con le stesse modalità con
cui avevamo chiuso, al momento le migliori possibili (ma ancora perfettibili).
Beh, noi non ci fermiamo come non ci siamo mai fermati. Ogni giorno sono
seduta al mio banco (la cattedra è stata tolta a settembre per ragioni di
distanziamento), dietro ad un plexiglass, con la mia Ffp2, con l’entusiasmo di
sempre e, purtroppo, in alcune classi con qualche alunno collegato via computer
perché in isolamento fiduciario. La mascherina non mi nasconde gli occhi dei
miei alunni: li vedo sempre brillare, ridere e talvolta avere paura.
Ci giochiamo così questi ultimi 2 mesi e mezzo (contando gli esami): con
le dita incrociate, nella speranza che nessuna classe finisca in quarantena,
che nessuno di noi docenti e dei nostri alunni o dei loro familiari si ammali
di Covid in forma seria o perda la vita (come è accaduto nei mesi scorsi). E
speriamo con tutto il cuore che il prossimo anno scolastico sia regolare:
integralmente in presenza e in sicurezza.
Il mio lavoro rimane il più bello del mondo.
Cristina Lomazzi
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