martedì 27 aprile 2021

 

                                            A SCUOLA NELL’ERA COVID

 

La scuola è un microcosmo nel quale ogni giorno si svolgono rituali consolidati, si vivono emozioni, crescono relazioni, si apprende, si insegna, si educa, si sbaglia, si conosce, ci si incontra, si litiga, si ride, ci si arrabbia, ci si innamora, ci si fida e ci si sfida. Un piccolo mondo dove bambini e ragazzi si preparano alla vita, accompagnati da adulti che hanno scelto questa professione.

A fine febbraio dello scorso anno , la pandemia ha interrotto bruscamente la scuola in presenza. Un’emergenza improvvisa ed inaspettata che nessuno era stato preparato ad affrontare e gestire.

Insegno in una scuola secondaria di primo grado del legnanese e il nostro motto, da subito, è stato “La scuola non si ferma”. Tuttavia, sarebbe ingenuo e falso affermare che questa indicazione sia stata accolta in ogni istituto, da ogni docente e da ogni alunno con lo stesso spirito, lo stesso coraggio e la stessa determinazione.

Gli insegnanti non erano preparati. La gestione della didattica a distanza è stata affidata, durante il primo durissimo lockdown, alla responsabilità ma anche alle capacità digitali dei singoli docenti. La formazione in itinere ha permesso di attivare percorsi didattici che si sono rivelati sicuramente differenti tra loro sia per qualità sia per quantità. Ho visto in moltissimi colleghi uno sforzo enorme per non lasciare gli alunni da soli, fin dall’inizio. Molti di noi non avevano mai utilizzato Zoom o Google Meet prima, non utilizzavano abitualmente piattaforme come Classroom, Edmodo, Weschool. In alcune scuole non era ancora a pieno regime l’utilizzo del Registro Elettronico.

La DAD è stata difforme, faticosa e soprattutto frustrante perché non ci ha permesso di raggiungere tutti gli alunni. Moltissimi bambini e ragazzi non avevano dispositivi adatti o sufficienti. Se in una casa ci sono tre bambini in età scolare e il computer è uno solo, l’uso ne è naturalmente compromesso. Molte famiglie non disponevano (e qualcuno ancora oggi non dispone) di una buona connessione né di una minima formazione digitale tale da supportare a livello tecnologico i propri figli. Con diverse famiglie straniere che avevano già difficoltà linguistiche è stato ancora più complesso interfacciarsi. Molti istituti hanno fornito tablet o altri dispositivi in comodato d’uso a chi ne aveva bisogno ma, ad esempio, laddove i giga a disposizione del nucleo familiare erano pochi, le video lezioni li consumavano in poche ore.

Al di là di questi aspetti pragmatici, che hanno segnato in modo significativo la DAD, emerge come dato ancora più rilevante il vuoto lasciato dalla mancanza della “vita scolastica,” così ricca di dinamiche, relazioni ed emozioni. La vita che corre tra i banchi, nelle classi e nei corridoi di una scuola è insostituibile e concorre in modo pregnante alla formazione e alla crescita di ogni bambino e ragazzo.

Davanti ad una situazione sanitaria drammatica, soprattutto per la perdita di molte vite umane, si è dovuto sacrificare questo elemento così imprescindibile nella vita dei nostri figli ed alunni.

La DAD era l’unica alternativa possibile e, per questo motivo, nonostante tutti i suoi indiscutibili limiti, le sono grata perché mi ha permesso di mantener un contatto con la quasi totalità dei miei alunni fin dai primi giorni. Se l’emergenza Covid si fosse verificata 25 anni fa non ci sarebbe stata nessuna alternativa alla scuola in presenza.

Dopo un anno, la DAD non è più una sorpresa purtroppo. É diventata, nella sua forma pura e nella DDI diffusa nelle scuole superiori, una realtà normata che, a singhiozzo, ha accompagnato anche il presente anno scolastico 2020/2021. Oggi, la formazione dei docenti, l’uso delle aule virtuali, il superamento delle difficoltà tecnologiche di alcuni studenti hanno portato ad una didattica a distanza più efficace ed inclusiva di quella messa in campo nei primi mesi. Questo però non è ancora soddisfacente.

A novembre, il giorno prima che venisse nuovamente sospesa la didattica in presenza, ho discusso della situazione con una mia classe terza (media): una classe con ragazzi straordinari, pieni di voglia di vivere e di crescere insieme. Caratteristiche che accomunano tutte le mie classi, del resto. Tutti gli alunni concordavano che il sacrificio che veniva chiesto loro era davvero grande e che solo il proteggere la vita dei nonni o dei genitori poteva valere un sacrificio tale.

Quello che si vive davanti ad uno schermo è un palliativo, una brutta copia che sta lentamente logorando la motivazione anche degli alunni più brillanti. La socialità di bambini e ragazzi è fortemente penalizzata e la tendenza alla dispersione scolastica è in crescita. Gli alunni più fragili hanno avuto le difficoltà maggiori e la possibilità di frequentare in presenza per gli alunni con bisogni educativi specifici (anche durante la chiusura) è stato uno strumento importante. Non si può d’altro canto dimenticare che il diritto all’istruzione deve essere garantito a tutti e nel miglior modo possibile.

Per noi insegnanti parlare davanti ad uno schermo dove spesso, nonostante le regole, qualcuno oltre a spegnere il microfono spegne la webcam, non è solo frustrante: non ti permette di tenere il polso della situazione, di cogliere quanto un alunno stia seguendo e capendo. Nella relazione tra docente e discente spesso basta uno sguardo per comprendere, richiamare o incoraggiare. Quello sguardo in DAD ci è stato tolto.

Personalmente, nonostante la fatica e lo scoramento per un modo di lavorare che spegne ciò che di più bello è presente in quello che per me è il lavoro più bello del mondo, rispetto e condivido la scelta di chiudere le scuole quando la pressione sugli ospedali si fa pesante e i numeri dei contagi lievitano inesorabilmente.

Non amo lavorare in questo modo, ma ne abbiamo fatto di necessità virtù. Nella maggior parte dei casi, le aule sono piccole e spesso non ben areate, le classi numerose. Le regole di prevenzione sono stringenti ma si sa che come ci sono le regole, ci sono sempre coloro che provano a non rispettarle. L’età dei miei alunni, la preadolescenza, è un periodo delicatissimo,in cui per alcuni più che per altri la sfida alle regole è parte dell’affermazione di sé. È sufficiente avere in una classe uno o due studenti che, nonostante i ripetuti richiami, faticano ad indossare correttamente la mascherina per mettere in pericolo la salute di tutti.

Le vaccinazioni degli insegnanti sono iniziate e sono state poi bruscamente interrotte. Mi ritengo privilegiata ad aver ricevuto la prima dose di vaccino. La variante inglese, ormai egemonica in Italia, colpisce più facilmente le fasce più giovani e c’è chi ha paura. Credo sia legittimo avere paura così come sia legittimo richiedere l’apertura delle scuole. C’è stato molto tempo per proporre soluzioni che possano limitare il contagio in un ambiente chiuso e di fatto affollato. Speravo in qualche forma di tracciamento (come ad esempio i tamponi rapidi) che, evidentemente, non è ancora realizzabile a livello capillare e abbiamo riaperto con le stesse modalità con cui avevamo chiuso, al momento le migliori possibili (ma ancora perfettibili).

Beh, noi non ci fermiamo come non ci siamo mai fermati. Ogni giorno sono seduta al mio banco (la cattedra è stata tolta a settembre per ragioni di distanziamento), dietro ad un plexiglass, con la mia Ffp2, con l’entusiasmo di sempre e, purtroppo, in alcune classi con qualche alunno collegato via computer perché in isolamento fiduciario. La mascherina non mi nasconde gli occhi dei miei alunni: li vedo sempre brillare, ridere e talvolta avere paura.

Ci giochiamo così questi ultimi 2 mesi e mezzo (contando gli esami): con le dita incrociate, nella speranza che nessuna classe finisca in quarantena, che nessuno di noi docenti e dei nostri alunni o dei loro familiari si ammali di Covid in forma seria o perda la vita (come è accaduto nei mesi scorsi). E speriamo con tutto il cuore che il prossimo anno scolastico sia regolare: integralmente in presenza e in sicurezza.

Il mio lavoro rimane il più bello del mondo.

 

Cristina Lomazzi

 

 

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